Esattamente un anno fa, un sabato di gennaio, andai a pranzare in un ristorante. Il posto era un all-you-can-eat con cucina asiatica. Niente di pretenzioso, ma neppure infimo. Si trova ancora sulla circonvallazione, con la sua insegna nera su cui sono abbozzati, a tratti chiari, una ciotola e due bacchette. Lo frequentavo non di rado, era a 5 minuti da casa e arrivando prima delle 12:30 si trovava posto senza fare la coda.
   Quel giorno avevo ordinato diverse portate di sushi, spiedini speziati, gamberi al pepe e infine un piatto di verdure saltate. Non prendevo spesso le verdure, ma per cambiare volevo mangiare meno pesante. Le verdure sarebbero state unte come gli altri piatti in padella; eppure, l'idea di chiudere il pasto con un piatto vegetale, anche se assurda, mi dava una sensazione di pulizia. La giornata era nitida e soleggiata. Intendevo fare una camminata verso la campagna dopo pranzo. Se avessi ordinato troppo, come facevo al solito nella frenesia di assaggiare tutto, mi sarei appesantito e la digestione greve avrebbe disturbato la mia passeggiata. Me ne sarei pentito, se avessi perseverato in quella smania puerile di ingozzarmi.
   Terminati i gamberi, mentre aspettavo che portassero le verdure, chattavo sul cellulare con alcuni amici. A grandi linee il discorso verteva sulle differenze tra Renzi e Di Maio, non tanto nella visione politica, di cui non eravamo certi, quanto sul profilo mediatico. La discussione stava prendendo una piega divertente per cui, arrivate le verdure, iniziai a mangiare senza staccare gli occhi dal telefono. Nei bocconi, che scottavano terribilmente, e che ero costretto a soffiare prima di portare alla bocca, dovevano esserci pezzi di carota, germogli di soia e qualcos'altro. Mentre leggevo un paragone tra Renzi e un venditore di pentole, ebbi una strana impressione. Mi girai in direzione del bagno, perché avevo percepito un odore strano, come di escrementi. Annusando da quella parte, però, non sentii altro, e mangiai un'altra forchettata. Avvertii di nuovo la puzza, questa volta distintamente, e la percepii anche nel cavo orale, confusa con il gusto del boccone appena deglutito. Sentivo il sapore che, in base all'odore, immaginavo avessero le feci. Ebbi uno scarto, posai la forchetta e mi portai con il naso sopra il piatto. Fui subito in imbarazzo per quel gesto inconsulto. Irrigidito, non mi voltai. Ero sicuro che i vicini di tavolo mi stessero fissando. Cercai di ricompormi. Versai un bicchier d'acqua, finsi di controllare il telefono e quindi riesaminai il mio piatto. L'aspetto della verdura era il solito, ma l'odore diverso. Ora ne ero consapevole: il piatto sapeva di merda. Odore di escrementi umani. Rimestai tra i frammenti vegetali con la forchetta, ma non vidi niente di particolare. Decisi comunque di non mangiare oltre. Avanzando una portata, secondo il regolamento del ristorante, avrei dovuto pagare un sovrapprezzo, ma in quel momento non mi interessava affatto. Non intendevo finire un piatto che sapeva di merda, quale che fosse il costo del mio rifiuto. E poi, se il cassiere avesse fatto storie, gli avrei detto che non mi sentivo bene, che mi spiaceva ma avevo il mal di pancia e non ero riuscito a finire la portata. Finii di bere l'acqua, mi alzai e andai alla cassa risoluto. Non avrei riferito niente, ma se mi avessero rinfacciato che avevo avanzato sapevo come rispondere. Cazzo, se mi avessero seccato gli avrei sbattuto sul muso che le loro verdure sapevano di merda, e mi avrebbero sentito anche gli altri clienti. Il commesso, tuttavia, fu gentile come al solito e mi fece pagare la normale tariffa.
   Uscito in strada, pensai che me l'ero cavata discretamente: non avevo quasi mangiato le verdure sospette e non mi era stato chiesto alcun sovrapprezzo. I vegetali erano stati saltati nell'olio bollente, pensavo, e il calore doveva per forza avere eliminato i germi. I rischi per la salute, con ogni probabilità, erano ridotti.
   Mentre camminavo ripresi la chat sul telefono e raccontai quello che mi era appena successo. Ero seccato. Quel ristorante mi piaceva ma non ero sicuro di volerci tornare. "Sarà stato olio troppo usato", digitai in cerca di una spiegazione per l'incidente. "Anche nei ristoranti più lerci, difficilmente un piatto arriva a sapere di merda”, scrissi. “Magari ti mangi un sacco di batteri, va bene, ma non senti sapore di cacca, a meno che non facciano il soffritto con uno stronzo al posto dell'aglio", continuai.
   I miei amici scrivevano di aneddoti simili, si cazzeggiava amabilmente. Convenimmo che un grande artista dovrebbe provare tutto nella vita, senza mai tirarsi indietro, ma feci notare che avrei volentieri evitato la coprofagia. Poi misi via il cellulare, perché volevo godermi la camminata nel giorno di riposo, abbandonarmi al ripetersi dei passi e lasciare che le impressioni entrassero senza disturbo.
   Percorrevo una strada di periferia che costeggiava un parchetto. Alla mia destra si trovava un'area con un prato tagliato corto, ricoperto da uno strato di foglie cadute, ancora belle nella forma stellata e nelle gradazioni di giallo e di bruno. Quella strada, sempre solitaria, portava verso i campi. Cercavo di non pensare, di sgombrare la mente, lasciando che essa si svuotasse. Passando nell'ombra di un albero, avvolto dal vuoto azzurro, assaporavo il senso del freddo. Riemerso alla luce, il sole di un inverno caldo trasmetteva onde di energia.
   Improvvisamente, con un moto spontaneo, mi voltai a destra, in direzione del prato, e guardai verso il basso. Esattamente in quel punto, adagiato sulle foglie umide, giaceva in pieno sole un pacchetto ancora chiuso di fazzolettini di carta. La confezione, di un semplice blu cobalto, riportava una piccola scritta bianca: “10 fazzoletti”. Più sopra, in mezzo al blu, a grandi caratteri bianchi, il nome della marca in corsivo: Alice. Proprio il nome della mia ragazza, realizzai, folgorato.
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